Les Misérables – Un canto di libertà

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Do you hear the people sing? Singing the song of angry men? It is the music of the people Who will not be slaves again!

Lo senti il popolo che canta? Che canta la canzone degli uomini furiosi? E’ la musica del popolo che non sarà ancora schiavo!
 (‘Do you hear the people sing?’ dal musical Les Misérables)
158 minuti di film e non sentirli. E’ difficile che accada, ma quando il film è un musical, a meno che non apparteniate a quella schiera di persone pseudo-nerd/pseudo-snob/ingenereuomini che disprezzano o guardano al musical come a un genere inferiore, nove volte su dieci il tempo scorre velocemente, come annullato dal vortice di musiche che ricopre il 90% della pellicola.
Se poi il musical in questione è la versione cinematografica de “Les Misérables”, uno dei musical più rappresentati di sempre, insieme al “The Phantom of the Opera”, tratto dal romanzo omonimo di Victor Hugo del 1862, allora il tempo che passa velocemente coincide con un vero e proprio vortice di emozioni. Con le musiche di Claude-Michel Schonberg e i testi (francesi) di Alain Boublil, il musical fu poi adattato in lingue inglese da Herbert Kretzmer, grazie all’interessamento di quel genio di Cameron Mackintosh, produttore e impresario teatrale, colui che ha “ri-creato” il magico mondo teatrale del West End londinese.
Il musical è un successo, e il film sembra seguire la stessa sorte. Il cast è d’eccezione, ma su tutti spicca il protagonista Jean Valjean, interpretato da un inedito Hugh Jackman. Dico inedito perchè nel mio immaginario (e non credo solo nel mio) Jackman, prima di “Les Miz”, incarnava lo stereotipo dell’attore bello-e-muscoloso, quello che in “Australia” si irrora gli addominali buttandosi un secchio d’acqua addosso e che nella sterminata saga di “X-Men” interpretava un Wolverine bello e tenebroso, con tanto di basettoni. Ebbene, scordatevi di quel Hugh Jackman, perchè in “Les Misérables” annulla totalmente quello stereotipo per calarsi nella parte del galeotto, vessato da anni di prigionia, smunto e dimagrito, provato tanto nel corpo quanto nello spirito.
ImmagineE’ proprio lo spirito il tratto distintivo del protagonista Jean Valjean: l’uomo, infatti, quando torna in libertà, affronta un processo di redenzione che lo sprona a cambiare vita e soprattutto identità. “Ritorna alla vita” Jean Valjean, e questo lo porterà a incrociare il proprio destino con quello dell’operaia, poi prostituta, Fantine, interpretata da una toccante Anne Hathaway. La commozione del suo personaggio raggiunge l’apice nel brano “I dreamed a dream”, ad oggi uno dei brani più ostici per tutte le aspiranti attrici di musical. Ma la Hathaway non delude e il brano, sostenuto da un’espressività enfatizzata a sua volta da un lungo piano sequenza sul suo volto, è una delle scene più belle e coinvolgenti di tutto il film.
Menzione speciale anche a Amanda Seyfried ed Eddie Redmayne, rispettivamente Cosette, figlia di Fantine cresciuta da Valjean, e Marius, giovane di buona famiglia che si dà alla causa rivoluzionaria del popolo francese. Se la Seyfried colpisce con il suo canto armonioso, Eddie Redmayne colpisce con l’impeto del suo personaggio, coinvolto tanto nella lotta al potere quanto nell’amore per la sua amata Cosette.
Ma è la rivoluzione la vera protagonista del film. A partire dal titolo, il musical e quindi anche il film è uno spaccato sulla vita dei “miserabili”, coloro che la vita e la sorte ha rovesciato e che per quanto cerchino di migliorare non riescono a risollevare il proprio destino. Sono i poveri contadini e pescatori che Verga dipinge ne “I Malavoglia”, sono i protagonisti de “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo, uomini e donne che nella loro miseria possono fare affidamento solo su loro stessi, nella speranza che ogni tanto un privilegiato “guardi giù” dall’alto della sua carrozza:
Look down and show some mercy if you can
Look down, look down, upon your fellow man!
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Il popolo non può sopportare a lungo la condizione di miseria cui è sottoposto, soprattutto un popolo come quello francese che, dopo aver rovesciato la monarchia, si trova ora vessato dal nuovo sovrano (era l’epoca della Monarchia di Luglio): gli anni sono passati ma nulla è cambiato, i poveri sono ancora allo stremo come all’epoca di Luigi XVI. Questa situazione porta all’insurrezione repubblicana del giugno 1832, nata durante i funerali del generale Lamarque e portata avanti sulle barricate, tra cui quella di rue Saint-Denis. Questa è la parte più emozionante del film, dove la barricata segna un confine tra ricchezza e povertà, legge e morale: nello scorrere delle immagini è impossibile non pensare a “La Libertà che guida il popolo” di Delacroix, dove la “Marianne”, simbolo della Francia, guida il popolo alla rivolta. E’ uno dei quadri più esemplificativi della democrazia, del potere del popolo unito contro la tirannia dei governanti, e di conseguenza il mio pensiero è andato al nostro paese, vessato anch’esso da una casta di privilegiati, ma che al contrario del popolo dipinto nel quadro non riesce a insorgere, a ribellarsi, a esercitare quella sovranità che secondo il primo articolo della nostra amata Costituzione “appartiene al popolo”. Ci lamentiamo, questo sembra bastarci.
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Tornando al film, non si può non citare i due grotteschi personaggi Thénardiere e moglie, locandieri/ladri interpretati rispettivamente da Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter. Esilaranti e a tratti inquietanti, sembrano ricalcare le maschere della Commedia dell’Arte italiana del servo furbo e della servetta, complici trucco e costumi che contribuiscono alla riuscita dei personaggi, sicuramente i più teatrali tra il cast.
Nota dolente, ahimé, è Russell Crowe. Il celeberrimo gladiatore non convince, e a distanza di quasi tredici anni l’attore non riesce ancora a spogliarsi di quel ruolo che lo ha pietrificato in uno sguardo severo e austero, quasi immobile. Non convince nemmeno dal punto di vista vocale, e purtroppo la differenza con gli altri attori si sente, soprattutto nel confronto iniziale tra l’ispettore Javert e Jean Valjean. E’ un peccato, perchè il suo talento sarebbe potuto emergere facilmente grazie al conflitto che attanaglia l’ispettore Javert, un odio contrastato da una forma di rispetto per l’avversario Valjean: nella parte finale del film, infatti, il personaggio è combattuto tra il dover arrestarlo e il riconoscere la sua indole generosa, e questo conflitto purtroppo è intuito dallo spettatore solo grazie al testo esplicito dell’ultimo brano che canta, non abbastanza sostenuto recitativamente da Crowe. Il complesso e quindi affascinante personaggio di Javert, esponente di una legge che non sempre (nel film quasi mai) corrisponde alla giustizia e alla morale, è quindi perso nell’interpretazione di Crowe, e questa è forse l’unica dota dolente del film.
Per quanto riguarda la regia, Tom Hooper si conferma padrone della macchina da presa soprattutto nel cogliere le sfaccettature psicologiche dei personaggi, proprio come è accaduto ne “Il discorso del re” (2010). Larghe e imponenti inquadrature ci mostrano una Parigi della post-Restaurazione così come è descritta dai romanzi dei più grandi letterati francesi dell’Ottocento, da Hugo a Zola, a Flaubert. La matrice inglese è palpabile, e quella Parigi può benissimo diventare la Londra di Defoe o, più tardi, di Dickens, attraversata nelle strade da studenti spiantati, prostitute e monelli di strada, tra cui spicca il piccolo Gavroche, interpretato da Daniel Huttlestone, un Oliver Twist francese dalla voce innocente e contemporaneamente potente, capace di suscitare tenerezza e simpatia in ogni spettatore.
In definitiva, “Les Misérables” è all’altezza delle aspettative. La spettacolarità, i temi e il cast valgono i 158 minuti di film, anche se il musical non è il vostro genere, perchè peccato, redenzione e amore sono quegli aspetti della vita con i quali ogni uomo combatte ogni giorno, in nome di una libertà individuale e civile che non dev’essere sprecata né sacrificata.
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