“Lo zoo di vetro” di Tennesse Williams: istruzioni per l’uso

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Essendo un “dramma di memoria”, Lo zoo di vetro può essere rappresentato con insolita libertà di convenzioni. Fatto com’è di una materia delicata o tenue, ha bisogno di un’atmosfera ricreata con tocchi leggeri e di una regia sapiente e sottile.

Tennessee Williams, Lo zoo di vetro, note di regia

Chi ama leggere e chi ama il cinema non può non adorare i testi teatrali. Immaginare la scena sul palcoscenico, le luci, i costumi dei protagonisti, adattandoli di volta in volta al testo ma anche al proprio gusto personale.

Con Lo zoo di vetro c’è poco spazio per l’immaginazione: Tennessee Williams istruisce noi, registi mentali della sua opera, su come metterla in scena. Il palco non può riprodurre una reale casa americana degli anni Quaranta ma deve essere scarno e impoverito. Senza pretese come l’anima dei protagonisti.

La scena è memoria, quindi irreale. La memoria si concede molte licenze poetiche: omette particolari, e altri ne esagera, a seconda dei valori emotivi degli oggetti sui quali si posa, perché la memoria risiede principalmente nel cuore. L’interno della casa è dunque misterioso e poetico.

Scena prima, parte prima

Leggere Williams non è quindi leggere Shakespeare. La poesia non è nei versi, almeno apparentemente, ma nelle istruzioni. Poi, leggendo con attenzione, ti accorgi che c’è tanta poesia anche nel dramma, e le vicende della famiglia Wingfield assumono una connotazione romantica e donchisciottesca. I Wingfield, infatti, lottano contro il mulino a vento della povertà e cercano il riscatto sociale, la madre attraverso la figlia, il figlio attraverso i sogni e la speranza in un futuro migliore. Non è quello che abbiamo tutti, in fondo?

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